Del resto è solo uno dei problemi che ho con le top ten. Non so come cominciare. Un altro potrebbe essere che questa non si chiama nemmeno top ten, ma best of. Ho appena ordinato un’invasione di cavallette per tutti quelli che leggendolo mi hanno corretto mentalmente (il Pacchetto Speciale con pioggia di rane e morìa di raccolti è per quelli che hanno sospirato e pronunciato a voce alta la frase “non è una top ten”).
Che poi il vero problema in realtà è a monte, comincia a farmi venire una leggera ma costante pelle d’oca verso fine novembre: io quest’anno, come ogni anno, sono in ritardo. Ogni anno che Dio manda da quando ho ricevuto i doni di intendere e di volere, doni che reputo preziosi e che quindi utilizzo con estrema parsimonia, io leggo, ascolto, vedo, faccio cose degli anni prima. Ne consegue logicamente che c’è stato un anno zero in cui non ho combinato una beata minchia, e se dovessi provare a datarlo punterei su quella complessa fase dell’adolescenza in cui i tuoi genitori continuano a bussare per farti uscire dal bagno in cui non stai leggendo la Recherce. Quell’annus horribilis ha avuto su di me conseguenze che sconto tutt’ora, e ho imparato a considerare perfettamente normale aver letto o visto solo adesso la raccolta di saggi di Zadie Smith (2009) o l’unico film cartolina venuto decentemente a Woody Allen (Midnight in Paris, 2011 – ascoltate il saggio zio Giorgio, non provate nemmeno a vedere gli altri).
In tutti i casi – lo so, sarebbe bellissimo se continuassi con i fatti miei per altre quindici righe, prometto che ne riparleremo la prossima volta davanti a un buon tè – con gli anni ho imparato ad approssimare e a tirare le somme in maniera decente, con l’unico problema che sforo, sforo terribilmente. Ma bando alle ciance ulteriori: la mia top ten del 2012, in ordine assolutamente casuale, comprende:
10) La ristampa della raccolta d’esordio di Aimee Bender per i tipi di Minimum Fax e l’intervista che ho avuto modo di farle per Ultima Sigaretta.
9) La mostra al Belvedere per il centocinquantesimo della nascita di Klimt. Da levare il fiato.
8) Il disco (download a prezzo libero) con cui Amanda Palmer è riuscita ad agglomerare polemiche per un totale di quasi un Saratommasi (il Saratommasi è l’unita di misura della polemica condotta su un dato argomento). Lautamente finanziato su kickstarter, suonato dal vivo (inizialmente) da musicisti non pagati, con un video d’esordio diretto da Wayne Coyne (che quest’anno, in quanto a polemiche…) e in cui Stoya1 fa l’educanda traviata, non si può ascoltare senza sentire il sudore e toccare fisicamente ogni singolo difetto di Amandona. Il che lo rende la cosa uscita quest’anno più accostabile al terrificante (in ambito artistico) concetto di onestà.
7) Il concerto dei Calexico all’Estragon a novembre. Perché qualche anno fa erano venuti moscetti e postrocchi, e quest’anno sono tornati carichi e filoterzomondisti come piacciono a noi. Concerto dell’anno senza se e senza ma, a grandissima distanza dai Radiohead inspiegabilmente imprecisi al Parco Nord (senza contare il tecnico del suono che ha fatto scempio del povero Caribou), dai Wilco massacrati dal mixer in ben due festival differenti2 e persino da
6) I Blur, visti in mezzo al paradosso di fotocamere e smartphone di adolescenti svedesi più interessati a quattro palloni svolazzanti. Che a sapere che poi sarebbero andati in giro in tutto il mondo avrei fatto a meno di andare in un posto in cui apparentemente la sola Tender è stata un successo epocale (Oh my baby, oh my baby, oh my, oh why, cantavano ininterrottamente nell’ora in cui aspettavamo che il concerto iniziasse e che Bon Iver, dal palco alle nostre spalle, riacquistasse magicamente l’uso dei suoi testicoli) (il secondo desiderio non si è avverato. Lo so, spiace più a me che a voi). Che figata, ad ogni modo.
5) Sherlock Holmes. Sforo di poco entrambi i confini del 2012, ma se c’è un anno in cui la creazione (creatura?) di Conan Doyle è stata al centro dell’attenzione è stato questo: il delizioso giocattolone che ha restituito al mondo i neuroni di Guy Ritchie, precedentemente vampirizzati da Madonna, e il gradevole procedurale Elementary, che, pur utilizzando proprio quella parola (maledetti yankee) ha preso nel nostro cuoraccione il posto lasciato vacante dal buon dr House3, per ora senza neanche quelle intollerabili sottotrame emotive. Ma soprattutto è stato l’anno di Sherlock, già bello alla prima stagione ma imbarazzantemente bello nella seconda.
4) Abbassa!, festival improvvisato al volo per la ricostruzione di un circolo musicale di Finale Emilia. Non tanto come esempio della gestione post-terremoto emiliana, quanto per l’impeccabile coincidenza di gruppi (semplici-ma-esaltanti, su tutti Gazebo Penguins e Stato Sociale), presobenismo, cibo buono, birre a poco prezzo e semifinale vincente con l’Inghilterra (lo so, che schifo, il pallone, com’è nazionalpopolaVe, scostiamoci, caVa).
3) Settimana degli Havah. Scaricabili gratuitamente, queste sette canzoni del figlioccio4 del batterista dei Raein testimoniano innegabilmente che
- finalmente quei tipi che urlavano cose poco sensate in inglese hanno imparato quella che definiremo La Grande Lezione Dei Laghetto (LGLDL), passando all’italiano e scrivendo cose bellissime, in barba a tutti quelli che no sul seVio basta coi Fine BefoVe You Came, ti pVego (sì, sono gli stessi di prima)
- il lo-fi rimane un’ottima scelta, sempre
- il nuovo cantautorato italiano va cercato dovunque, meno che tra quelli che rifanno il verso ai cantautori.
Detto questo, se come dovreste avete appena scaricato il disco, sappiate che metà delle persone che ho convinto a sentirlo hanno trovato il modo di cantare orrendo. Io lo trovo stupendo, la verità sarà lì da qualche parte.
2) The Avengers. La dimostrazione che è possibile fare un film d’azione senza quelle cazzo di camere a mano mosse convulsamente in modo da rendere impossibile capire cosa sta succedendo, un film con i supereroi che non sia patetico, un film di fantascienza con una trama godibile, un film d’azione (2) in cui la trama ha più spazio del CGI di gente che si mena – e inoltre che Edward Norton è un trombone bollito (per quanto sia difficile bollire un trombone), e che Mark Ruffalo senza manco sforzarsi se lo magna a colazione.
1) Tutti i Santi Giorni. Dice un mio amico che il film è bello, a parte la fotografia-Instagram. Dice la mia sodale che il film è bello, a parte un paio di scene veramente ridicole. Dico io che è un Virzì minore ma pur sempre Virzì, che ha il dono di far film italiani in cui succede qualcosa (e non ci sono solo medioborghesi tristi e annoiati che si guardano gli alluci), e che per la prima volta la fotografia si nota (a me è piaciuta molto, ma in tutti i casi non ha mai spiccato così tanto nei film del livornese). Un paio di cose inutili ci sono, ma avercene.
05). C’era una volta in America restaurato, in versione extended, in Piazza Maggiore. Perché, lo dico per voi che a Bologna non ci avete vissuto, qui funziona che d’estate Piazza Maggiore diventa un cinema all’aperto, e tra film restaurati, recuperati, raccattati (tutti bellissimi), anima i trenta gradi col solo aiuto di una birretta fresca. Pare poco.
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Note:
1Stoya, cari bambini, è una delle pochissime pornostar che sono riuscite a diventare icone della contemporaneità – molto meno di Sasha Grey, ma del resto le mancano quantomeno il motto giusto e uno scotch con Matthew Barney.
2 Forse lo stesso Malvagio Tecnico del Suono Itinerante, che gira da concerto a concerto per equalizzare malissimo i gruppi migliori.
3 Non posso non cogliere l’occasione per far notare la curiosa parabola circolare6 di Holmes, personaggio ispirato da un dottore, diventato detective, ridiventato dottore.
4 Nel senso di progetto parallelo, è una metafora. Essù.
5 L’avevo detto che sforo sempre.
6 No, non si dice, è un paradosso, “parabola circolare”. Sì, complimenti.